Review from Metal Italia
Posted by Nick Skog on Saturday, March 16, 2019 Under: Italian
From: Metal Italia
Published: March 9, 2019
È il suono di chi si perde nei boschi, quello di “Natural Extinctions”. Di chi entra in una foresta, meglio se fitta e intricata, e vi vaga con noncuranza di quale sia il corretto sentiero da calpestare. Perché forse il senso ultimo del cammino sta proprio nel farsi spingere dagli eventi, dalle emozioni, non costringersi a un comportamento predefinito. È ciò che sembra suggerirci l’ascolto del primo album del duo italiano The Haunting Green, che riflette sulla perdita della purezza dell’individuo nel corso dell’esistenza e della difficoltà di preservare la propria autenticità e non rovinare il rapporto con la natura. L’adattamento come snaturamento ed eclisse inevitabile di una parte importante di sé, cui la band risponde sciogliendo i freni inibitori e lasciando scorrere la musica in un soliloquio dalle poche barriere. Con una sensibilità e una spinta verso la vaporizzazione delle strutture che li porta a un’interpretazione post-rock della materia, i The Haunting Green smussano e addolciscono le asperità dello sludge e del doom, per tingerle di coloriture pacate, rassicuranti, che si perpetuano in languide mareggiate di malinconia ed estasi. Arpeggi, percussioni velate di candore, strati di synth cosmici sono ingredienti fondamentali di un album che avrebbe potuto essere solo strumentale, elidendo quindi le rabbiose sfuriate post-metal che rappresentano i momenti più carichi di aggressività del disco. Passaggi secondo noi non così necessari, un po’ anonimi e forzati se confrontati a quelle gradite sensazioni di torpore, calma, nostalgia evocate quando le chitarre si diluiscono e fanno parzialmente addormentare la distorsione, rifuggendo da asprezze e ansie.
Lo spirito libero che si scorge nella tracklist ci tenterebbe a dare un’etichetta ‘progressive’ all’album, interpretando tale termine come la capacità di uscire dagli schemi e non flettersi ad alcuna regola nella composizione. Capita spesso durante l’ascolto di chiedersi dove si sia finiti, a che punto stiamo, persi in un divagare drone, una sospensione temporale di impronta ambient, un’oasi acustica. La ruvidezza complessiva del suono propende per un’interpretazione orgogliosamente novantiana della materia, il carattere mesto ma poetico guarda invece a quella fragilità emotiva tipica di molto doom degli anni ’10. Echi dei primi Opeth affiorano a più riprese, proprio per la dote di abbandonarsi alla musica senza chiedersi dove li porterà, se vi sia un vero approdo per essa. La limatura delle asprezze vocali e l’ulteriore rinuncia a modi rudi e istintivi non potrà che dare ancora maggior compiutezza a un discorso artistico già ora molto intrigante.
Rating: 7/10
Reviewed by: Giovanni Mascherpa
In : Italian
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