Review from Metallized
Posted by Nick Skog on Monday, October 5, 2020 Under: Italian
From: Metallized
Published: October 3, 2020
Il quarto album della formazione belga Marche Funèbre arriva come una gelida fiamma maligna ad oscurare la stagione autunnale in arrivo, periodo dell’anno che si confà perfettamente alle atmosfere plumbee e cupe di Einderlicht, che fin dalle prime battute si classifica senza troppi dubbi come il disco più ambizioso e interessante della band.
I belgi propongono fin dal 2009 uno stile ibrido che ha le sue radici nel black e nel death metal nordeuropei, per poi arricchire il tutto con forti influenze doom e strutture prog che tanto devono ai primi Opeth quanto agli Amorphis e ai My Dying Bride; attraverso tre album, due EP e due split la band ha saputo trovare pian piano una sua precisa dimensione artistica che in Einderlicht trova il definitivo compimento, capace di allontanare buona parte dei facili paragoni che si potevano fare prima della sua pubblicazione. Non per niente il gruppo ha impiegato ben tre anni, dal 2016 al 2019, per completare la stesura della musica e delle parole di Einderlicht. Tematicamente i testi dei sei brani che compongono il disco – il cui titolo si traduce con “la luce della/alla fine” – ruotano intorno al suicidio e alle ragioni per le quali l’uomo decide di porre fine alla sua vita. Proprio i testi risultano la componente più interessante dell’opera, che si fregia anche dell’utilizzo del noto componimento Verrà la morte e avrà i tuoi occhi di Cesare Pavese sul brano The Maelstrom Mute.
La bella copertina ideata dall’artista Brooke Shaden introduce con le giuste sensazioni al primo brano, Scarred, che apre l’album con un mood soffuso e nebuloso dal retrogusto blues prima di sfociare in territori doom dalla forte carica melodica, contrastata dal growl di Ande Vandenhoeck, bravo e versatile nell’alternare diversi stili vocali nello stesso pezzo. La composizione riflette l’eclettismo dei musicisti nella scrittura e se si pensa che Scarred è stata composta nel 2016 dal chitarrista Kurt Blommé e poi rifinita anno dopo anno per arrivare a questa versione definitiva si ha ben chiaro quale sia lo standard qualitativo a cui i Marche Funèbre aspirano.
Con The Eye of the End la bilancia pende decisamente sul death metal, almeno all’inizio, per poi riempirsi di suggestioni melodiche, che rimangono la vera costante del disco, brano dopo brano. È comunque la brutalità del growl a trionfare sui fraseggi delle chitarre, mentre il doppio pedale tonante di Dennis Lefebvre come uno schiacciasassi regge le redini del brano fino alla sua conclusione. I brani della band hanno tutti una durata elevata e gli abbondanti undici minuti di When All Is Said segnano il picco di minutaggio all’interno dell’album. Emerge qui la componente maggiormente prog dei belgi, unita a una sana passione per l’heavy metal tradizionale e anche ad un certo post rock mai troppo esplicitato, ma decisamente percepibile. The Maelstrom Mute si piazza a metà del disco e sicuramente spicca per essere il brano più immediato di tutti, grazie al cantato pulito e ad una melodia malinconica che si appiccica all’orecchio dell’ascoltatore e non se ne va più via. Il testo, come già detto, è semplicemente la traduzione in inglese della poesia di Pavese, che certamente perde qui tutta la sua forza linguistica, ma non risulta forzata ed anzi si adatta particolarmente bene alla musica, che qui si prodiga in una lezione di doom melodico puramente anni ’90 che richiama allo stesso tempo sia gli Anathema che i Paradise Lost.
Infine, dopo una Deformed che ripresenta gli stessi ingredienti tendenti al death metal di brani come The Eye of the End senza notevoli variazioni, ma al contrario con un approccio vocale che non convince del tutto, salvo poi salvarsi sul finale con un bel break arpeggiato, si arriva alla finale Einderlicht, che chiude le danze in maniera esemplare: la stesura generale del brano è opera del chitarrista Peter Egberghs, che a questo punto dovrebbe comporre molto di più se questi sono i risultati; un avvio acustico dai lontani sentori jazz viene condotto dalla voce sporca di Vandenhoeck verso territori doom resi più suggestivi dall’uso, da parte del cantante, della lingua madre. L’alternanza tra sezioni in clean e improvvise accelerate al limite del black metal rendono la titletrack il miglior brano in scaletta, capace di regalare emozioni profonde grazie al sapiente uso dei cori e delle architetture chitarristiche, qui bilanciate perfettamente. È presumibile che in questo caso la mano del produttore Markus Stock, storico fondatore degli Empyrium e già responsabile della produzione del penultimo album dei Marche Funèbre, sia stata più incisiva rispetto agli altri brani del disco.
Nel complesso dunque Einderlicht si conferma non solo come l’album più ambizioso e interessante della discografia dei belgi, ma anche come il migliore, sia per ciò che riguarda la scrittura e la composizione dei singoli brani, sia per quel che riguarda l’ottima produzione dell’opera globale, copertina inclusa. Non mancano alcune sbavature, riscontrabili più che altro nella ridondanza di certe soluzioni compositive o di singole sezioni strumentali che appesantiscono qua e là l’ascolto (parliamo di sei brani per circa un’ora di musica), ma se la band riuscisse ad asciugare leggermente il proprio songwriting ecco che allora potremmo parlare davvero di musica eccellente. Per ora i Marche Funèbre si dimostrano una realtà più che degna di essere seguita e approfondita dagli amanti del death e del doom, ma manca ancora qualcosina per salire al livello successivo. Einderlicht ad ogni modo ci va davvero vicino e questo è un piacere per il nostro orecchio.
In : Italian
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