Review from The Pit of the Damned
Posted by Nick Skog on Sunday, February 3, 2019 Under: Italian
From: The Pit of the Damned
Published: February 3, 2019
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La Hypnotic Dirge Records sta facendo un buon lavoro, fondamentalmente votato a scovare band interessanti in territori black doom senza sbracarsi troppo in innumerevoli uscite annuali. Lo scorso anno tra le release più interessanti dell'etichetta canadese, c'è sicuramente da annoverare quella degli Altars of Grief, quintetto originario di Regina, nel Saskatchewan. Il genere in cui è possibile collocare i canadesi è quello di un death doom emozionale che arriva a sconfinare talvolta nel black. Otto tracce per confermare quanto di buono i nostri avevano lasciato intravedere nel precedente 'This Shameful Burden', ormai datato 2014, anzi fare decisamente meglio. La mid-tempo "Isolation" apre il disco con una certa eleganza, proponendo appunto un death doom atmosferico, corredato da cleaning e growling vocals, che talvolta sfociano in grida dal forte sapore black, pur la traccia muovendosi in territori ritmati e assai melodici. Non si può dire altrettanto della funambolica "Desolation", violentissima nella sua estremissima ritmica black symph con una batteria sparata al fulmicotone, come se non ci fosse un domani. Solo delle evocative vocals provano a placare l'incedere tempestoso di una song dal sicuro impatto sonoro, che nella porzione solistica sembra lasciar intravedere delle reminiscenze progressive. La title track riparte là dove "Isolation" aveva concluso, con un sound decisamente più controllato e decadente, complici le liriche che, come spiegato dal vocalist, narrano di un padre che si ritrova incapace di connettersi e prendersi cura della sua giovane figlia, Iris, che si è gravemente ammalata. Spingendosi sempre più a fondo nei suoi vizi, e sentendosi respinto dalla nuova fede incrollabile di Iris, entra nella sua auto e decide di lasciarla indietro. Da qualche parte lungo la strada ghiacciata, perde il controllo del suo veicolo e perisce. Il suo purgatorio è guardare impotente mentre Iris soccombe lentamente alla sua malattia senza di lui. Tornando alla traccia, non manca neppure qui la forsennata ritmica che schiude a momenti più calibrati, di temperamento doom e linee melodiche dal forte tocco malinconico, spezzate però sempre da quelle intemperanze ritmiche che sembrano deviare notevolmente il corso del brano verso lidi più estremi o ancora far sprofondare il tutto in territori angoscianti in un'altalenanza ritmica davvero pericolosa. "Child of Light" è una song più classica che poco mi ha lasciato al termine del suo ascolto, se non una certa analogia con i grandi del passato. Decisamente più interessante "Broken Hymn" per il violoncello di Raphael Weinroth-Browne, che qui sembra assurgere un ruolo drammaticamente più importante nell'esibire quell'aura decadente all'intero album, in una traccia lenta e ritmata che trova comunque sfogo nelle ormai classiche e divampanti scariche black, contrastate solo dalle splendide vocals pulite del bravissimo Damian Smith, eccellente nella sua prova. "Voices of Winter" mi ricorda un che dei primi Novembre; gli archi di Raphael sono sempre preponderanti ma il corso del pezzo vedrà la proposta della band rallentare verso trame sempre più oscure e tenebrose che ci introducono alla drammatica "Becoming Intangible", dove un duetto formato da chitarra acustica e voce pulita (coadiuvate dal violoncello, qui più in sordina), colpiscono per l'enorme pathos messo in scena nella sua prima parte, prima di esplodere in un'ultima sfuriata black, prima della conclusione affidata al tiepido e nostalgico addio dell'epilogo finale. Davvero intriganti, da ascoltare ad ogni costo.
Rating: 80/100
Reviewed by: Francesco Scarci
In : Italian
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